Claudio Gamba: Ricordo di Andrea Emiliani

Claudio Gamba: Ricordo di Andrea Emiliani

Il 27 marzo è stata allestita a Bologna la camera ardente per l’estremo saluto ad Andrea Emiliani, figura tra le più importanti della storia dell’arte e della tutela in Italia nel Novecento. Uomo coltissimo, dall’eloquio raffinato e tagliente, Emiliani non fu mai un appartato erudito: in lui la figura del funzionario statale si univa a quella del docente, il mondo degli studi filologici si fondeva con quello della conservazione dei beni culturali, in un nesso inscindibile e circolare tra la conoscenza e la tutela del patrimonio storico e artistico. Da quel nesso sarebbero poi venute fuori anche la divulgazione, la valorizzazione, la fruizione, la partecipazione del pubblico, ma a quel nesso primario non si poteva rinunciare. Tutto contribuiva a dare alle tracce del passato una funzione sociale e quindi “politica”: dalle capillari campagne di catalogazione sul territorio di ogni tipo di manufatto fino alle mostre sui grandi artisti del Cinque e Seicento, dai restauri e dagli allestimenti museali fino alla ricognizione sulla storia legislativa della tutela.
Per questo uno dei suoi libri più importanti rimane “Una politica dei beni culturali” uscito nel 1974, poco prima della nascita del ministero spadoliniano che avrebbe però preso una strada ben diversa da quella progettata nel volume di Emiliani. Quando una quindicina di anni fa realizzammo il primo sito web dell’Associazione Bianchi Bandinelli curai una rubrica sui libri fondamentali per la storia della tutela e subito scelsi di dedicare una pagina a questo testo, accompagnandola con la scheda che riporto qui sotto insieme a uno stralcio della sua introduzione.
Poco dopo l’Associazione Bianchi Bandinelli coinvolse Andrea Emiliani in due iniziative (curate da me sotto la presidenza e con il coordinamento di Marisa Dalai): la prima fu il “Forum sul presente e futuro della catalogazione” pubblicato all’interno del volume con gli scritti di Oreste Ferrari “Catalogo, documentazione e tutela dei beni culturali” (Annali ABB n. 18 – 2007) in cui Emiliani ripercorreva le celebri e innovative “campagne di censimento e la conoscenza per la catalogazione del patrimonio culturale (Bologna, Valle del Reno, del Setta e del Santerno, 1968-1971)”; la seconda iniziativa fu nel novembre 2008 quando organizzammo un grande convegno di studio e di protesta (accompagnato da una vasta mobilitazione di appelli e articoli) con il titolo  “Allarme Beni Culturali”, tenuto nella sala affollatissima dello Stenditoio al San Michele: Emiliani aprì la prima delle quattro tavole rotonde, sul tema “Il modello italiano di tutela del patrimonio culturale” (Annali ABB, n. 20 – 2009). Su molti punti le idee dell’Associazione non collimavano con quelle sostenute da Emiliani, in particolare sul problema del decentramento, ma certo c’era piena intesa su quella che era stata la missione fondativa indicata da Argan e Chiarante: il raccordo tra Università e Soprintendenze, tra attività di ricerca e amministrazione dei beni culturali, la centralità delle competenze tecniche e della formazione.
Naturalmente accanto all’impegno pratico, teorico e storico sulle tematiche della tutela, Andrea Emiliani ha svolto un ampio lavoro di studi storico-artistici, in particolare su alcuni grandi pittori (da Federico Barocci agli emiliani del Seicento), affinando nell’analisi delle opere e nello studio delle fonti quel suo linguaggio forbito (che gli veniva anche dalla formazione con Longhi e Arcangeli) che riversava poi negli scritti sulla storia della legislazione e sulla storia dei musei, un ambito che era stato sempre trattato con arido linguaggio tecnico e giuridico e che invece Emiliani (forte dell’esperienza concreta avviata sin da giovanissimo grazie all’incontro con Cesare Gnudi) faceva rivivere come una problematica attuale, viva, con una prosa pulsante e ammaliante.
Chiunque si sia occupato di beni culturali in Italia gli è debitore, ma intanto si affollano nella mente anche i ricordi personali, dei pochi e indelebili incontri diretti e delle tante conversazioni mentali che sempre i suoi scritti hanno provocato in chi (come tutti noi dell’Associazione) non riesce a concepire la storia dell’arte e le altre discipline dei patrimonio disgiunte dall’impegno militante, magari con una spolverata di pungente ironia ad alleggerire la rabbia per le scriteriate politiche culturali del nostro bellissimo e sciagurato Paese.
 
Claudio Gamba
 

Scheda sul volume di Andrea Emiliani, pubblicata sul sito dell’Associazione Bianchi Bandinelli nel 2005 nella sezione “La Biblioteca di Giano: Libri del passato per guardare al futuro dei Beni Culturali e Ambientali”.

 

Andrea Emiliani
Una politica dei beni culturali
con scritti di Pier Luigi Cervellati, Lucio Gambi e Giuseppe Guglielmi
Piccola Biblioteca Einaudi, n. 236
Einaudi, Torino 1974
297 pagine
 
 
 
 
 
 
Commento
Il volume, uscito nel 1974 e considerato a ragione un testo fondamentale della riflessione sia metodologica che pratica sulle tematiche legate ai beni culturali, è costruito intorno al progetto di un Istituto per i beni artistici culturali naturali della Regione Emilia-Romagna, una delle prime iniziative nate in quel processo di decentramento finalizzato a rendere più stretto il vincolo della tutela con il territorio in tutta la sua articolazione e stratificazione storica e culturale (il museo viene quindi considerato, nel libro, come “opera chiusa”, mentre la nuova conservazione globale dovrà fondarsi sulla sistematica opera di catalogo e preservazione dei “luoghi”; la Regione diventa così il referente privilegiato per attuare un diverso rapporto tra Amministrazione centrale e periferica). Questo progetto (politico prima ancora che giuridico) non si lega solo a un nuovo modello di gestione e di conoscenza ma discende anche da un nuovo “concetto di bene culturale” che Emiliani individua in una unità inscindibile tra geografia, storia, arte e ogni altra forma di linguaggio, cioè, infine, in un concetto globale di cultura antropologicamente intesa. (Claudio Gamba)
 
SOMMARIO DEL VOLUME
Introduzione
Beni culturali e conservazione

  1. Per un nuovo concetto di bene culturale
  2. Politica e conservazione
  3. Una politica per la conservazione

Progetto per un Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna
Appendice I. Costituzione dell’Istituto per i beni artistici culturali naturali della Regione Emilia-Romagna
Appendice Il. La legge istitutiva
Le iniziative afferenti
La legge per i centri storici, a cura di Pier Luigi Cervellati
Per una cartografia dei patrimoni culturali, a cura di Lucio Gambi
Una scuola interdisciplinare, a cura di Giuseppe Guglielmi
Appendice
Ricerca sulla tutela del patrimonio artistico e culturale in Italia. Relazione preliminare, a cura di Maria Giuliana Luna
 
DALLA INTRODUZIONE DI ANDREA EMILIANI
(riportiamo uno stralcio della parte iniziale, pp. 5-12)
Al progetto che delinea i metodi e le forme dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, abbiamo voluto premettere alcune generali considerazioni che possono rendere più esplicito il terreno politico e culturale sul quale il progetto stesso si è inizialmente mosso ed ha quindi preso forma istitutiva e di legge. Era infatti inevitabile che, di fronte alla nascita di un diverso modo di gestione del patrimonio — non sterilmente contrapposto a quello tradizionalmente centrale, ma utilmente propulsivo e nello spirito stesso del dettato costituzionale — si ripercorresse la vicenda politico-amministrativa dei beni artistici dell’Italia unita, a decorrere dal 1860 per giungere fino ai giorni nostri. Più di un secolo infatti è durato l’estenuante dibattito, ora caloroso e scandalizzato, ora pigro e svogliato, per tentare di gettare le basi di una gestione adatta ad un paese di così proverbiale ricchezza storica e artistica. Diciamo subito che proprio la lunga esperienza maturata, specie nel XVIII secolo, presso i cessati governi, avrebbe potuto essere di grande aiuto ai padri della patria, solo che se ne fosse compresa la coraggiosa essenza conoscitiva e non ne fosse stata invece adottata e per giunta in forme improprie soltanto l’innegabile sostanza autoritaria. A nostro modo di vedere, la frattura immediatamente rivelatasi risiede infatti — nei suoi termini ormai storici, ma sopravvissuti in buona parte ancora oggi — fra l’autoritarismo della tradizione giuridica conservativa, costruita su norme cogenti e su progressivi, sempre più ampi divieti; e la nuova dinamica liberistica impressa alla società italiana dopo il 1860.
Nei primi decenni della vita nazionale — mentre, anche per non saper fare altro, ogni regione ereditava le leggi preesistenti — si pensò che anche le strutture amministrative di tutela potessero restare quelle provinciali o regionali già allora, anche se debolissime, in atto. Ma dopo il 1875 circa, allorché fu possibile constatare che una legge nazionale di tutela dotata di quelle caratteristiche storiche avrebbe inevitabilmente dovuto generare una serie di vincoli e di impedimenti per il libero dinamismo dell’iniziativa privata e degli stessi enti pubblici, si pensò bene di ritardarla quanto più possibile. Ancora nel 1888, per la voce dello stesso ministro all’istruzione, di fronte all’ennesima bocciatura di una legge nazionale, il problema veniva posto in chiari termini: o si ritiene che la libertà di intrapresa non debba incontrare ostacoli, oppure si conferisce all’utile collettivo un potere che inevitabilmente potrà creare gravami e servitù. In parallelo, allora, si pensò bene di attuare progressivamente e sempre più stringente quel controllo centrale che solo avrebbe, più tardi, potuto garantire una manipolazione dei problemi assai vasti proposti dalla tutela d’arte e di storia; lontano comunque dai luoghi di origine dei problemi stessi, nonché dalla loro più diretta partecipazione. La linea politica tracciata naturalmente non esclude, ma anzi incorpora e se ne avvale, altre più oneste spinte ad una gestione centrale e forte: la preoccupazione dell’unità dei metodi di conservazione e di restauro, e la ricorrente proposta per una tutela «guidata» contro ogni (del resto innegabile) pericolo di dispersione, di abuso e di confusione.
La sottrazione del patrimonio ai luoghi e alle comunità di origine e di persistenza conobbe un processo forse lento ma nei fatti inarrestabile. Per di più, il patrimonio assunse quasi subito l’aspetto di una costante remora allo sviluppo, di un ostacolo continuo a ogni malintesa idea di progresso da concretarsi, allora come oggi, in distruzioni edilizie, in «risanamenti» di speculazione, in lottizzazioni indiscriminate. Dall’equivoco nacque, o riprese forza, una certa etica del museo come sede di deportazione e di concentramento, piuttosto che come luogo di indagine scientifica e di metodo didattico. Ogni esortazione conservativa finì quasi sempre per suggerire immagini di miseria e di abbandono. Così, da simbolo concreto e magnifico della ricchezza e della cultura delle comunità, i beni artistici — anche per il parallelo dissidio fra Stato e Chiesa, fra radicale anticlericalismo e riottoso clericalismo — divennero facile emblema della povertà, dell’inattività e della solitudine. Due terzi dell’Italia più profonda e antica appaiono subito, agli occhi dei loro abitatori, l’immagine più appariscente di ciò che si deve abbandonare, fuggire e dimenticare. Oppure, proseguendo nella logica di un progresso materialistico, l’immagine che si deve rinnovare; e dunque abbattere, umiliare e sostituire.
É facile intendere — anche se non si è sufficientemente riflettuto su questa ovvietà — che la nozione di bene culturale si riconduce al concetto stesso di cultura; e che esclusivamente su di essa si erige ogni accezione di intervento giuridico. Non è possibile infatti creare leggi e dare struttura ad apparati amministrativi, se proprio una individuata nozione di bene culturale non ne detta orizzonti e confini. Essa è stata invece sempre intesa, o quasi sempre, come nozione separata dal concetto di cultura. Elevata per lo più all’altezza dell’arte più grande, rettorica e magniloquente, ha finito per lasciare alle spalle e fuori delle porte dell’angusto pantheon della gloria nazionale una grande quantità di fenomeni e di relazioni che, al contrario, costituivano parte integrante della sua entità globale. Una fitta tempesta di distinzioni di natura estetica, tanto di origine storica quanto di più fresca matrice, ha sezionato la sua naturale compattezza: arti maggiori e minori, nobili e vili, con la A maiuscola e con la a minuscola, feticci e comparse, si sono orribilmente mescolati, oggi, alle complicazioni giuridiche, assumendo in tal modo figura di interesse locale o di interesse nazionale, al solo scopo di meglio riflettere pertinenze del tutto astratte e dettate soltanto dalla retroguardia amministrativo-culturale del paese.
All’interno di una visione antropologicamente più nitida del concetto di cultura, ognuna di queste distinzioni viene illuminata oggi per quello che essa vuole significare: un contributo ad una separatezza che ha giovato al potere politico per non porre freni eccessivamente stretti alla speculazione e alla logica del profitto; che ha portato vantaggio anche all’amministrazione centrale, che di quel potere è troppo spesso stata emanazione diretta e gerarchizzata; che è stata utile spesso anche agli enti locali, che hanno presto imparato a ripercorrere le strade del potere centrale: ben sapendo, del resto, di potergli addebitare la prima e la maggiore responsabilità, proprio per essere stati allontanati da un possesso naturale attraverso il prolungato, quotidiano atto di espropriazione e di alienazione che la vicenda, in un secolo di storia, esprime. Si dovrebbe poi aggiungere che questa separatezza è parsa talvolta utile anche alla cultura ufficiale, e alle singole discipline storiche nate su ceppo specialistico e diacronico, poco convinte dunque di un’idea globale della civiltà (e della dinamica dell’intraducibile civilisation); e molto sovente affezionate a quella interpretazione manualistica dei programmi scolastici che poco ha giovato alla scuola e molto invece al grossolano codice riduttivo dell’industria della cultura: un empireo capolavoristico di selettive e settimanali proporzioni.
In realtà, se il concetto di bene culturale partecipa intimamente del concetto di cultura, ogni difficoltà incontrata dal primo è anche frutto del mancato pieno sviluppo del secondo. L’Istituto dei beni culturali che la Regione Emilia-Romagna ha deciso di varare, intende misurarsi proprio con un concetto di cultura che, in senso antropologico, realizzi l’intima connessione di una serie di operazioni distinte ma interdipendenti, unificabili come «linguaggi» o come sistemi di significazione. Ciò che rende singolare ed inedito l’Istituto stesso è che aspetto istituzionale e aspetto sistematico siano strettamente uniti, in quanto prodotto di una condizione storica e di una politica che non nasconde la volontà di proiettarsi nei tre tempi del presente: «il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro», secondo la formula di indubbio sapore gramsciano entro la quale Guido Fanti ha voluto puntualmente raffigurare metodi e orizzonti dell’istituto stesso. L’identificazione storica concorre a quella «diversità» emiliano-romagnola, alla quale Fanti, in numerose occasioni riprese, ha assegnato qualcosa di più che una semplice funzione di starter politico e sociale: ma piuttosto il disegno di un modo di essere vastamente culturale, entro il quale prendono figura non bassamente rivendicativa o strapaesana, i caratteri storici e le vocazioni plurime della regione intesa come spazio omogeneo.
La nozione di bene culturale investe direttamente sedimentazione e stratificazione di un territorio, quello emiliano e romagnolo, nel quale l’opera di umanizzazione, come del resto in tante regioni italiane, è giunta nei secoli a livelli di così intima e indistricabile presenza, da non poter essere più «catalogata» come divisa, oppure disciplinarmente settorializzata, ma piuttosto letta nelle sue costanti dinamiche di organizzazione, evoluzione e sviluppo. Così, «la esigenza di una tassonomia ovvero di una catalogazione “incalzante” del tessuto storico di una società variamente stratificata nei suoi livelli o gradi di civilizzazione, come quella emiliana, muove dall’ipotesi che il recupero di un concetto globale di cultura costituisce il fondamento di una logica unitaria, di una filosofia generale del sapere» [Giuseppe Guglielmi]. Degradazione e distruzione del patrimonio storico e artistico aggiungono purtroppo vivida attualità a questo vastissimo campo della significazione, ne accelerano l’importanza prammatica e ne dettano i tempi immediati, attesi non più soltanto dall’ansia degli scienziati ma dalla coscienza stessa di molti amministratori.
Proprio in Emilia riaffiora, con metodi e strumenti moderni, quella sensibilità dello sperimentale e dell’induttivo (che nella tassonomia trova il suo veicolo primario) che caratterizzò fra il XVII ed il XVIII secolo l’opera dell’erudizione e della verifica storica, dettata dalla tradizione galileiana. Bacchini e Muratori, Malpighi e Marsili sono soltanto alcuni fra i grandi nomi ai quali l’Istituto intende riferirsi per riannodare il filo di lontane ma tutt’altro che mitiche continuità. «Scorgesi per la verità qual libro sia la nostra Italia quando accade che sia studiato da chi tien occhi che non si fermino su la pura superficie delle facciate delle chiese o de’ palagi», è il commento che suscitava nel Bacchini la lettura del Museum Italicum del grande Mabillon: ma ad un orecchio moderno esso può davvero suonare come una divisa di lavoro, «una pedagogia generale di un metodo e di una cultura» (Ezio Raimondi).
Una condizione culturale emiliana più recente ha inoltre già riattivato il metodo di conoscenza e di relazione col vero, passando attraverso la classificazione dei problemi. Basterà ricordare l’attività euristica condotta in campo urbanistico-architettonico dall’amministrazione comunale di Bologna e culminata nel noto piano per la conservazione, anche sociale, del suo centro storico; e l’esperienza condotta nell’ambito delle campagne di rilevamento nell’Appennino bolognese, organizzate dalla Soprintendenza alle gallerie e dalla Provincia di Bologna.
«Così, mentre la sociologia viene rimeditando sui propri fondamenti, e da un’analisi degli stati si sposta verso un’analisi delle trasformazioni, l’antropologia sta diventando sempre più storiografia, analisi di una società come sistema di forze e di relazioni, entro cui si organizza l’esperienza collettiva dell’uomo sociale. Ed è proprio un disegno antropologico che informa l’Istituto per i beni culturali, il cui compito progettuale si ispira alle acquisizioni di discipline come la linguistica, la teoria dell’informazione, la logica formale, le quali aprono nuove vie all’analisi dei significati e degli oggetti non linguistici, quali l’analisi monumentale, delle cose mobili, del territorio, dei quadri paesistici ecc.»
Ma il problema di fondo (perché la conservazione?) rimane quasi sempre insondato o addirittura inespresso, al di là dei riti culturali che l’hanno trasportato fino ai nostri giorni, al di là delle consuete giustificazioni storiche che non hanno soddisfatto il ricercatore, e infine anche al di là delle argomentazioni estetiche che tanto spesso non hanno contribuito se non all’estasi. In sostanza, è come se gli strumenti della nuova civiltà che auspichiamo non bastino a interpretare quel problema; e quelli della civiltà che ci ha preceduti appaiano inservibili se non addirittura devianti. Vista entro questi dubbiosi termini, la stessa attività di catalogazione e di inventario rischia di assomigliare ad un enorme ingombro di carte e di prelievi, pronto prima o poi a crollarvi addosso, come nel racconto di Anatole France: e comunque una sorta di onanistica restitutio di una storia verso la quale, in fondo, non abbiamo, quanto a fini e a risultati generali, altro che diffidenza.
Qui si impegna duramente il codice ideologico di lavoro dello storico dell’arte e della ricerca sulle forme; e poiché proprio chi opera nel settore della conservazione è stato più d’ogni altro impegnato fino ad oggi come «braccio secolare» di una storia di sintesi, costui è venuto gradualmente assumendo la figura di un inutile analizzatore, di un compilatore compiaciuto soltanto delle capacità «ausiliarie» della ricerca. La sua attività stessa, all’interno di questa storia di sintesi, rischia di essere messa in crisi, paradossalmente, proprio quanto più alto è il grado qualitativo e quantitativo del suo lavoro. Poiché nulla, evidentemente, guida dall’interno i gradi sempre parziali del suo procedere. Si sono del resto viste, nella pratica corrente, zufolate estetistiche pressoché ridicole conseguire assensi di elevato prestigio accademico; si vedono suicide serpentine di analisi materiale, cronistica ed effimera, esalare l’ultimo respiro in faccia al più stracco sociologismo di routine. Sarebbe temerario affermare che, almeno per ora, molte cose della storiografia e della critica d’arte siano avviate a qualche moderna soluzione.
Ma ritorniamo con fiducia al ricercatore. Al di là della storia di sintesi si colloca la sua insostituibilità, oggi. Anche se il discorso può ancora sembrare limitativo ai cultori affrettati del giudizio storico, si tratta ora di garantire — dall’interno di un inarrestabile processo storico — una precisa, non intermessa trasmissione delle tecniche della cultura. In questo senso, le tecniche non faciunt saltus, e non possono avere sospensioni, pena una regressione di proporzioni inattese: tanto meno oggi e cioè nel momento in cui davvero più lontana e dunque più superflua — di fronte alla disinvoltura di tanto superficiale «attualità» — può apparirci l’infinita trama delle tecniche del lavoro e della stessa sopravvivenza. Eppure, ogni scienza urbana e del territorio rischia di conoscere la disfatta più clamorosa se non tiene conto di questa incancellabile trasmissione «didattica» e metodologica. L’ecologia, in questo senso, è davvero un insegnamento esemplare; e la soluzione stessa dei suoi grandi problemi passa tutta attraverso la capacità dell’uomo di sapersi «culturalmente» collocare rispetto alla natura, come appunto le tecniche tradizionali ci possono — se indagate — rivelare.
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